Da una parte il prof. Aldo Giannuli e dall'altra un altro Aldo, anche lui prof. ma che di cognome fa Grassini ed ha "qualche esperienza" in campo esperantistico.
Tra due prof., un ignorante da solo fastidio e non può far altro quindi che raccogliere quanto da loro detto e riportarlo qui di seguito. A chi più erudito poi tirare le debite conclusioni. Partiamo proprio dalla replica che ha dato il Prof. Aldo Grassini, al Prof Giannuli, scusandomi per non concedere la priorità agli scritti del Dott. Giannuli quale consueto diritto di ospitalità, ma del resto da esperantista mi si perdonerà l'essere di parte con l'aggravante dell'ignoranza. (F.G.)
Preg.mo prof. Giannuli,
ho letto con grande attenzione
e vivo interesse le Sue argomentazioni critche in merito all'ipotesi che
la lingua inglese possa diventare la lingua veicolare universale. Ho apprezzato
le documentate indicazioni da Lei apportate e la logica del ragionamento.
C'è una parte, però, che non mi è sembrata di pari valore rispetto alla
serietà dell'impegno intellettuale, laddove Lei si riferisce alle
caratteristiche dell'esperanto. Evidentemente non ha approfondito questo tema
con pari rigore.
Le Sue argomentazioni in proposito sono molto
simili a quelle delle origini, quasi delle petizioni di principio che non
tengono alcun conto dei 128 anni della storia dell'esperanto. Lei definisce come
"esperimenti che non hanno avuto mai fortuna" l'esperanto e gli altri
tentativi di creare lingue artificiali. Ma se l'esperanto è l'unico che ha
resistito all'usura del tempo ed è ancora vivo e vegeto, ci sarà pure un
motivo! E di motivi ce ne sono diversi: basta leggere quanto scrive
Umberto Eco nel suo studio "La Ricerca della lingua pefetta" (1994). E
infatti l'esperanto è tuttora diffuso in quasi tutti i Paesi del mondo e
costituisce un piccolo poolo (poi neppur tanto piccolo), ma attivo e vivace.
Questi 128 anni hanno dimostrato che in esperanto si possono scrivere
opere letterarie e saggi scientifici e si può parlare di qualunque cosa e
in qualunque tono; esiste ormai perfino un piccolo popolo madrelingua
esperanto dei figli nati in famiglie linguisticamente miste la cui lingua
domestica è appunto l'esperanto. Mancano una letteratura e una
cultura? Questa è un'obiezione che poteva esser rivolta al primo impegno di
Zamenhof, ma oggi esistono traduzioni in esperanto di tutti i capolavori di
tutte le culture, quelle grandi e quelle piccole. Esiste, tanto per fare un
esempio, più di una traduzione in esperanto della Divina Commedia in terzine
dantesche, mentre non esiste in inglese e in molte altre lingue. E questo
la dice lunga circa la fonetica che rende così musicale l'esperanto, pienamente
adatto all'espressione poetica anche in versi ritmici e con la rima, e ad esser
cantata, come dimostra la sua ricca discografia. Circa il suono del Padre
Nostro, beh, il giudizio mi sembra assolutamente soggettivo!
Non c'è letteratura? E i migliaia di volumi di
scritti originali in prosa e in versi? E la candidatura di William Auld al
Premio Nobel per la letteratura? E le molte traduzioni, pubblicate in diverse
lingue, di libri scritti originalmente in esperanto? Oggi non è oggettivamente
possibile affermare che l'esperanto non ha una sua letteratura e una sua
cultura.
Quanto al confronto tra l'esperanto e il latino, al
di là di qualsiasi altra considerazione, ce n'è una che taglia la testa al toro:
l'esperanto è infinitamente più facle del latino! E lo dice uno che, come me, il
latino lo ha studiato e lo ha anche insegnato.
E se poi vogliamo semplificare il latino eliminando
le declinazioni, le coniugazioni e le eccezioni, finiremmo con il
compiere un'operazione analoga alla creazione dell'esperanto su una base
lessicale diversa, senza dimenticare che per aggiornare il lessico latino alle
esigenze della cultura moderna, dovremmo comunque inventare un gran numero di
vocaboli nuovi.
Voglio concludere ossevando che, se il latino è
effettivamente una lingua molto sintetica, l'esperanto può esserlo anche di più.
Riprendo i due esempi da Lei proposti: "callida iunctura" e "ordo verborum"
possiamo tradurli rispettivamente in esperanto con "ruzkunligo" e
"vortordo", con la differnza che l'esperanto offre una tale libertà
nella formazione delle parole che questi due concetti potrebbero essere
espressi in parecchi altri modi,
Al di là di questa discussione, sono comunque
pienamente d'accordo con Lei, prof. Giannuli: una lingua nazionale non può
essere lo strumento migliore per poter fungere da lingua veicolare nel momento
in cui questa esigenza si pone come un problema di grande attualità; essa non
sarebbe mai neutrale e rischierebbe di fagocitare tutte le altre lingue
diventando lo strumento per un processo di colonizzazione culturale a vantaggio
della cultura egemone, trasformando la globalizzazione nel trionfo di un
pensiero unico che cancella la ricchezza della diversità.
Con stima
Aldo
Grassini
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http://www.aldogiannuli.it/italiano-quarta-lingua/
L’Italiano
è la quarta lingua studiata nel mondo: gli unici a sorprendersi sono gli
italiani.
Written by Aldo Giannuli. Posted in Le analisi,
Osservatorio Globalizzazione
Un paio di settimane fa, la stampa italiana
dava, con un certo stupore, la notizia che l’Italiano è la quarta lingua
studiata nel mondo, dopo inglese, spagnolo e cinese, non riuscendo a spiegarsene
il perchè.
Le prime tre sono abbastanza logiche: l’inglese è la lingua di
un miliardo e mezzo di persone (mettendo nel conto anche gli indiani) ed è la
principale (ma non l’unica) lingua franca del Mondo. Lo spagnolo è la lingua di
mezzo miliardo di parlanti ed è in rapida espansione negli Usa; quanto al
cinese, non solo è la prima lingua di un miliardo e mezzo di parlanti, ma è la
lingua del principale paese emergente (forse è meglio dire ”Emerso”) e seconda
potenza mondiale. Sin qui tutto spiegabile.
Invece, inspiegabile è che
sia quarta l’Italiano, lingua di poco più di sessanta milioni di parlanti (forse
settanta se ci mettiamo dentro eritrei, albanesi, somali che lo conoscono e un
po’ di italiani all’estero), di un paese relativamente piccolo ed in decisa
decadenza, ignorato dalle grandi potenze e ridicolizzato dai suoi piccoli
politici passati e presenti.
Precede lingue come il francese, il tedesco,
il russo, il portoghese, il giapponese, come si spiega? Il guaio è che i
giornalisti italiani sono molto ignoranti e, quel che è peggio, non fanno
nessuna ricerca prima di scrivere.
Allora vediamo qualcosa che può
spiegare questo strano fenomeno. Prima di tutto, si dimentica che l’italiano è
la lingua franca di uno dei principali soggetti geopolitici mondiali: la Chiesa
Cattolica. La lingua ufficiale della Chiesa, come si sa, è il latino, ma quella
in uso fra i prelati (e spesso anche i semplici preti) di nazioni diverse è
soprattutto l’Italiano che è parlato correntemente in Vaticano ed usata
prevalentemente dal Papa, vescovo di Roma, anche se non si tratta più di un
italiano da quasi quaranta anni. Ed anche in ordini religiosi con i salesiani o
i gesuiti, la lingua corrente è l’italiano.
Poi c’è da considerare che
l’Italia è uno dei paesi che ha avuto una cospicua emigrazione nell’ultimo
secolo: circa 40 milioni di persone sparse soprattutto in Argentina, Usa,
Canada, Australia, Germania, Francia e Belgio e non pochi figli e nipoti si sono
mantenuti bilingui. Fra l’altro (la cosa non ci inorgoglisce ma deve essere
registrata su un piano avalutativo) l’Italiano è spesso usato fra gli uomini di
Cosa Nostra o fra gli ‘ndranghetisti sparsi per il mondo ea altre organizzazioni
criminali come i colombiani. E anche questo è un fenomeno sociale.
C’è
poi l’importanza dell’Italiano sul piano culturale ed anche qui si sono
dimenticate troppe cose. In primo luogo si dimentica che l’italiano è la lingua
principale del melodramma e nel mondo ci sono tanti melomani che apprezzano
molto la nostra musica lirica, basti pensare al successo mondiale avuto da
Pavarotti dagli anni ottanta in poi.
Poi la letteratura italiana è
sicuramente una delle primissime a livello mondiale; non mi interessa stabilire
se sia la prima in assoluto (anche se non mi stupirebbe affatto constatarlo), mi
basta sottolineare come essa abbia uno sviluppo continuo nel tempo da XIII
secolo in poi, con capolavori di livello mondiale, in tutti i secoli. Quello che
non mi pare si possa dire allo stesso livello delle letterature di Inghilterra,
Francia, Germania, Spagna e Russia che presentano maggiore
discontinuità.
Chi voglia avere una idea del “peso” della letteratura
italiana, può consultare la monumentale collana di testi della Ricciardi, ma
ripeto che non ha senso stare a stabilire se si tratti della prima in assoluto,
basti considerare che certamente è fra le primissime. E non sorprende che ci
siano autori italiani (da Petrarca a Gramsci o Leopardi) più amati e letti
all’estero che in Italia. Ma qui c’è il ruolo della scuola, il cui principale
scopo è far odiare agli studenti tutto quello che fa loro studiare.
Del
peso dell’arte italiana, in particolare del Rinascimento, ma non solo, non è il
caso di dire e questo spiega (altra cosa non sufficientemente considerata) che
l’Italia sia una delle principali mete turistiche nel Mondo.
E, infine
(anche la cultura “materiale”, ha il suo peso) tanto la gastronomia quanto la
moda nel Mondo parlano spesso italiano.
Che morale possiamo ricavare da
questa terribile sproporzione fra l’apprezzamento che la cultura e la lingua
italiana riscuotono nel mondo e la pochezza dell’autostima degli italiani?
Semplicemente che gli italiani del tempo presente sono impari rispetto al
patrimonio culturale che li sovrasta. Peccato.
Aldo Giannuli
it/inglese-lingua-veicolare/Lingua veicolare: dove sta
scritto che debba essere per forza l’inglese?
Written by Aldo
Giannuli. Posted in Le analisi, Osservatorio Globalizzazione
Nel Mondo
della globalizzazione è inevitabile che si affermi una lingua “veicolare” che
permetta di interagire: tanto per dirne una, cosa sarebbe internet senza
l’inglese? Dunque, è pacifico che si debba andare ad una lingua di
comunicazione, anche se questo non significa affatto che le altre debbano
scomparire o diventare lingue di serie B. Il pluralismo culturale resta una
fonte di arricchimento insostituibile ed irrinunciabile.
Ed allora,
lingua comune sia, ma non è poi così scontato che debba essere l’inglese.
Intanto alcuni dati non saranno inutili e li riprendiamo da una fonte
insospettabile di anti anglismo, il libro di Huntington sul conflitto di
civiltà, per il quale, nel 1992, i parlanti la lingua inglese erano il
7,6% della popolazione mondiale, mentre il cinese mandarino era parlato
dal 15,2% e lo spagnolo dal 6,1%. Una stima decisamente avara che considera solo
Usa, Uk, Canadà e Australia e che non tiene conto della tradizionale diffusione
dell’inglese tanto nei paesi del nord Europa quanto in quelli ex coloniali come
India e Sudafrica. Poi va detto che l’inglese è la lingua più studiata nel
mondo. In totale, la stima più realistica è quella di un 20-22% della
popolazione mondiale in grado di parlare e comprendere sufficientemente la
lingua inglese.
Il numero potrà sembrare basso, dato che la sola
India ha circa il 18% della popolazione mondiale, ma bisogna considerare che una
larga fetta degli indiani (regioni rurali interne, sottoproletariato urbano ecc)
non parlano affatto inglese ed un’altra parte rilevante parla un inglese molto
approssimativo ed elementare, al di sotto del limite di sufficienza. E lo stesso
si può dire di paesi come il Sudafrica, il Kenia o Mnmar.
Quanto agli
studenti che apprendono l’inglese a scuola, va detto che in maggioranza poi ne
conservano solo tracce del tutto insufficienti e, comunque, non sono in grado di
utilizzare un dizionario monolingue.
Dunque, nel complesso, circa l’80%
della popolazione mondiale non conosce affatto l’inglese o ne ha rudimenti assai
scarsi. Anche scendendo al di sotto della soglia di sufficienza e considerando
quanti hanno conoscenze utili ad avere una conversazione elementare, non andiamo
molto oltre un terzo della popolazione mondiale e, quindi, la grande maggioranza
della popolazione mondiale (non meno dei 2/3 ) ignora del tutto l’idioma di
Shakespeare.
Per quanto il quinto considerato è sicuramente la parte più
dinamica e “globalizzata” (che viaggia, studia, si connette in internet, segue
la stampa e la Tv ecc.), siamo ancora abbastanza lontani da quello che potrebbe
essere la lingua comune mondiale.
A questo bisogna aggiungere altre
considerazioni. Parlare di inglese come di una lingua unica è un po’ fuorviante,
in realtà inglese originario, inglese americano e inglese indiano hanno non
irrilevanti differenze tanto per la pronuncia quanto per la costruzione
lessicale e grammaticale. L’inglese originario è una lingua molto ricca di
espressioni idiomatiche che non sempre presenti, ad esempio,
nell’inglese-americano che, però, ne ha di proprie. Certo, un inglese ed uno
statunitense si capiscono, ma i due idiomi vanno divaricando e l’inglese
americano tende a prevalere. D’altra parte, la maggior parte di quanti conoscono
l’inglese non come lingua materna, ma per averlo studiato, spesso ignorano
quelle espressioni idiomatiche ed hanno un lessico piuttosto
ridotto.
Dunque, per una ragione e o per l’altra, una larga fetta di quel
20-22% di cui dicevamo, parla una sorta di “basic english” che assolve a
funzioni di livello non eccelso. Inoltre, inizia a profilarsi un fenomeno
tipico, quello delle “lingue miste” (lo spanglish nel sud degli Usa e il
chinglish in alcune zone costiere della Cina) che hanno un effetto
contraddittorio, perché, da un lato, gettano un ponte fra la lingua franca e
quella locale, favorendone la penetrazione, ma dall’altro creano sorta di
enclaves linguistiche meno in grado di comunicare con il resto del Mondo, e
dunque, finiscono per erodere la diffusione della lingua veicolare.
Ci
sono, poi, considerazioni di ordine politico che meritano d’esser fatte: il
successo dell’inglese è legato alla sua doppia funzione imperiale, prima con
l’Inghilterra e dopo, ed ancor di più, con gli Usa. Il massimo di espansione
dell’anglofonia è coinciso con il momento felice del mono-polarismo americano,
ma siamo sicuri che il futuro conserva questo ruolo imperiale agli Usa? Il
servilismo delle classi dirigenti europee (Francia a parte) dà per scontato che
la partita sia chiusa e che l’inglese abbia vinto definitivamente, ma questa è
la resa dell’Europa, non del resto del Mondo.
C’è un altro fenomeno che
merita di essere notato: cinese a parte, la seconda lingua parlata al Mondo è lo
spagnolo, con il 6,5% di parlanti nativi (un po’ di più se a Spagna e America
latina ispanofona, aggiungiamo le Filippine), dunque, una percentuale non molto
inferiore a quella stimata da Huntington per i parlanti originari di lingua
inglese. Vero è che lo spagnolo non ha una India ed è studiato meno
dell’inglese, per cui, fatte le stesso considerazioni di prima er l’inglese, il
totale di quanti conoscono quella lingua come prima o come seconda, raggiunge a
mala pena il 13%, però occorre considerare che il tasso di fertilità dei latinos
è nettamente superiore a quello dei nord americani (e non parliamo degli
inglesi, canadesi o australiani). In secondo luogo, la forte immigrazione dei
sud americani negli Usa sta cambiando la geografia linguistica deli States: già
da un ventennio, in molti stati del sud, gli avvisi al pubblico sono trilingui
(inglese, spagnolo e spanglish. Infine occorre mettere in conto che, per le
stesse ragioni politiche che hanno sin qui assistito l’inglese, in alcuni
contesti, lo spagnolo incontra meno resistenze dell’inglese e penetra più
facilmente.
In particolare, già da anni si studia la possibilità di un
graduale passaggio del Brasile dal portoghese allo spagnolo, anche perché, in
questo modo, esso potrebbe più efficacemente aspirare alla leadership
continentale. E questo fatto da solo regalerebbe allo spagnolo un altro 4,5% di
parlanti sul piano mondiale. Dunque, i giochi non sono per nulla fatti e, in un
futuro non lontanissimo, potremmo anche assistere ad una gara fra inglese e
spagnolo, mentre, nonostante la grande quantità di parlanti originari, ben
maggiore di inglese e spagnolo messi insieme, appare meno probabile un testa a
testa fra inglese e cinese mandarino (la maggioranza dei parlanti usa lingue
fonetiche e non ideografiche).
Ma è proprio detto che si debba accettare
come lingua veicolare mondiale una lingua nazionale? E’ un po’ come avere una
moneta nazionale come moneta di riferimento internazionale: significa assegnare
a qualcuno un vantaggio su tutti gli altri. In una visione non gerarchica
dell’ordine mondiale (o il meno gerarchica possibile) questa primazia non si
giustifica ed assegnare questo vantaggio può produrre più attriti di quanto non
si immagini.
Dunque, ci sono alternative alla scelta di una lingua
nazionale in funzione di lingua veicolare. Una prima alternativa è quella di una
lingua artificiale come le “lingue ausiliarie internazionali” che sorsero nel
XIX secolo (volapuk, esperanto ecc.) ma bisogna dire che si è strattato di
esperimenti che non hanno avuto mai grande fortuna. Costruire un lessico con
prestiti linguistici dalle lingue nazionali produce una lingua che ha seri
problemi fonetici, ed ancora maggiori di natura grammaticale e sintattica,
scarsa armonia ed ovviamente non ha alle spalle una letteratura ed una cultura.
Se volete un esempio, basti leggere il padre nostro in esperanto:
« Patro
nia, Kiu estas en la ĉielo,
sanktigata estu Via nomo.
Venu Via
regno,
fariĝu Via volo,
kiel en la ĉielo tiel ankaŭ sur la tero.
Nian
panon ĉiutagan donu al ni hodiaŭ
kaj pardonu al ni niajn ŝuldojn,
kiel
ankaŭ ni pardonas al niaj ŝuldantoj.
Kaj ne konduku nin en tenton,
sed
liberigu nin de la malbono.
(Ĉar Via estas la regno kaj la potenco
kaj la
gloro eterne.)
Amen »
Non mi pare un grande risultato. Le lingue cd
ausiliarie sono state prodotti di laboratorio sterili come certi ibridi animali.
E si trattava di lingue artificiali costruite tutte su lingue europee,
immaginiamo che problemi potrebbero esserci con una lingua artificiale che
mescoli anche lingue idiografiche come il cinese, sillabiche come l’indi o il
giapponese ecc. Credo non si metterebbe insieme neppure l’alfabeto. Quindi direi
che possiamo lasciar perdere questa ipotesi.
Ne esiste un’altra: usare
una lingua morta, debitamente aggiornata nel lessico e semplificata nella parte
grammaticale e sintattica, riducendo al minimo eccezioni ed articolazioni.
L’esperimento è già stato fatto e con successo in Israele, che ha richiamato in
vita l’antico ebraico debitamente trattato. Anche l’arabo parlato (non quello
scritto che è intangibile essendo lingua sacra), in fondo, è una lingua antica
che si modifica e si aggiorna costantemente nel parlato.
Dunque, un’
operazione non impossibile che risolverebbe il problema del vantaggio ad una
lingua nazionale (anche se, sicuramente, alcune, per la maggiore vicinanza morta
a quella prescelta, avrebbero un residuo di vantaggio). Personalmente
ritengo che la scelta più opportuna sarebbe il latino, in primo luogo per la
larga diffusione scolastica di cui gode, perché ha una letteratura importante,
perché quasi tutte le lingue europee (quantomeno dell’Europa centrale ed
occidentale) hanno attinto ad essa, perché è legata ad un passato storico
studiato in gran parte del mondo. Ma soprattutto per un’altra ragione
specifica.
Recentemente ho spiegato a dei miei studenti questa mia idea
sul latino ed hanno riso, ma non hanno più riso quando gli ho letto questo
articolo de “La Repubblica” (22 dicembre 2014): “Perché il latino è la lingua
ideale per comunicare su twitter”. Infatti il latino è una lingua sintetica e
non analitica e, grazie ad artifici retorici come la callida iunctura (il “nesso
furbo”), l’ordo verborum (l’ordinamento delle parole), costrutti sintattici come
l’ablativo assoluto ed espedienti stilistici come il verbo sottinteso, ha
caratteristiche di asciuttezza e concisione sin qui insuperate, che la rendono
adattissima ad usi molto concentrati come twitter o gli sms. Perché non
discuterne?
Certo c’è sempre un vizio un po’ eurocentrico, ma sarà sempre
meglio che parlare la lingua dell’Impero vivente.
Aldo Giannuli