Da una parte il prof. Aldo Giannuli e dall'altra un altro Aldo, anche lui prof. ma che di cognome fa Grassini ed ha "qualche esperienza" in campo esperantistico.
Tra due prof., un ignorante da solo fastidio e non può far altro quindi che raccogliere quanto da loro detto e riportarlo qui di seguito. A chi più erudito poi tirare le debite conclusioni. Partiamo proprio dalla replica che ha dato il Prof. Aldo Grassini, al Prof Giannuli, scusandomi per non concedere la priorità agli scritti del Dott. Giannuli quale consueto diritto di ospitalità, ma del resto da esperantista mi si perdonerà l'essere di parte con l'aggravante dell'ignoranza. (F.G.)
Preg.mo prof. Giannuli,
ho letto con grande attenzione
e vivo interesse le Sue argomentazioni critche in merito all'ipotesi che
la lingua inglese possa diventare la lingua veicolare universale. Ho apprezzato
le documentate indicazioni da Lei apportate e la logica del ragionamento.
C'è una parte, però, che non mi è sembrata di pari valore rispetto alla
serietà dell'impegno intellettuale, laddove Lei si riferisce alle
caratteristiche dell'esperanto. Evidentemente non ha approfondito questo tema
con pari rigore.
Le Sue argomentazioni in proposito sono molto
simili a quelle delle origini, quasi delle petizioni di principio che non
tengono alcun conto dei 128 anni della storia dell'esperanto. Lei definisce come
"esperimenti che non hanno avuto mai fortuna" l'esperanto e gli altri
tentativi di creare lingue artificiali. Ma se l'esperanto è l'unico che ha
resistito all'usura del tempo ed è ancora vivo e vegeto, ci sarà pure un
motivo! E di motivi ce ne sono diversi: basta leggere quanto scrive
Umberto Eco nel suo studio "La Ricerca della lingua pefetta" (1994). E
infatti l'esperanto è tuttora diffuso in quasi tutti i Paesi del mondo e
costituisce un piccolo poolo (poi neppur tanto piccolo), ma attivo e vivace.
Questi 128 anni hanno dimostrato che in esperanto si possono scrivere
opere letterarie e saggi scientifici e si può parlare di qualunque cosa e
in qualunque tono; esiste ormai perfino un piccolo popolo madrelingua
esperanto dei figli nati in famiglie linguisticamente miste la cui lingua
domestica è appunto l'esperanto. Mancano una letteratura e una
cultura? Questa è un'obiezione che poteva esser rivolta al primo impegno di
Zamenhof, ma oggi esistono traduzioni in esperanto di tutti i capolavori di
tutte le culture, quelle grandi e quelle piccole. Esiste, tanto per fare un
esempio, più di una traduzione in esperanto della Divina Commedia in terzine
dantesche, mentre non esiste in inglese e in molte altre lingue. E questo
la dice lunga circa la fonetica che rende così musicale l'esperanto, pienamente
adatto all'espressione poetica anche in versi ritmici e con la rima, e ad esser
cantata, come dimostra la sua ricca discografia. Circa il suono del Padre
Nostro, beh, il giudizio mi sembra assolutamente soggettivo!
Non c'è letteratura? E i migliaia di volumi di
scritti originali in prosa e in versi? E la candidatura di William Auld al
Premio Nobel per la letteratura? E le molte traduzioni, pubblicate in diverse
lingue, di libri scritti originalmente in esperanto? Oggi non è oggettivamente
possibile affermare che l'esperanto non ha una sua letteratura e una sua
cultura.
Quanto al confronto tra l'esperanto e il latino, al
di là di qualsiasi altra considerazione, ce n'è una che taglia la testa al toro:
l'esperanto è infinitamente più facle del latino! E lo dice uno che, come me, il
latino lo ha studiato e lo ha anche insegnato.
E se poi vogliamo semplificare il latino eliminando
le declinazioni, le coniugazioni e le eccezioni, finiremmo con il
compiere un'operazione analoga alla creazione dell'esperanto su una base
lessicale diversa, senza dimenticare che per aggiornare il lessico latino alle
esigenze della cultura moderna, dovremmo comunque inventare un gran numero di
vocaboli nuovi.
Voglio concludere ossevando che, se il latino è
effettivamente una lingua molto sintetica, l'esperanto può esserlo anche di più.
Riprendo i due esempi da Lei proposti: "callida iunctura" e "ordo verborum"
possiamo tradurli rispettivamente in esperanto con "ruzkunligo" e
"vortordo", con la differnza che l'esperanto offre una tale libertà
nella formazione delle parole che questi due concetti potrebbero essere
espressi in parecchi altri modi,
Al di là di questa discussione, sono comunque
pienamente d'accordo con Lei, prof. Giannuli: una lingua nazionale non può
essere lo strumento migliore per poter fungere da lingua veicolare nel momento
in cui questa esigenza si pone come un problema di grande attualità; essa non
sarebbe mai neutrale e rischierebbe di fagocitare tutte le altre lingue
diventando lo strumento per un processo di colonizzazione culturale a vantaggio
della cultura egemone, trasformando la globalizzazione nel trionfo di un
pensiero unico che cancella la ricchezza della diversità.
Con stima
Aldo
Grassini
_______________________________________________
http://www.aldogiannuli.it/italiano-quarta-lingua/
L’Italiano è la quarta lingua studiata nel mondo: gli unici a sorprendersi sono gli italiani.
Written by Aldo Giannuli. Posted in Le analisi, Osservatorio Globalizzazione
Un paio di settimane fa, la stampa italiana dava, con un certo stupore, la notizia che l’Italiano è la quarta lingua studiata nel mondo, dopo inglese, spagnolo e cinese, non riuscendo a spiegarsene il perchè.
Le prime tre sono abbastanza logiche: l’inglese è la lingua di un miliardo e mezzo di persone (mettendo nel conto anche gli indiani) ed è la principale (ma non l’unica) lingua franca del Mondo. Lo spagnolo è la lingua di mezzo miliardo di parlanti ed è in rapida espansione negli Usa; quanto al cinese, non solo è la prima lingua di un miliardo e mezzo di parlanti, ma è la lingua del principale paese emergente (forse è meglio dire ”Emerso”) e seconda potenza mondiale. Sin qui tutto spiegabile.
Invece, inspiegabile è che sia quarta l’Italiano, lingua di poco più di sessanta milioni di parlanti (forse settanta se ci mettiamo dentro eritrei, albanesi, somali che lo conoscono e un po’ di italiani all’estero), di un paese relativamente piccolo ed in decisa decadenza, ignorato dalle grandi potenze e ridicolizzato dai suoi piccoli politici passati e presenti.
Precede lingue come il francese, il tedesco, il russo, il portoghese, il giapponese, come si spiega? Il guaio è che i giornalisti italiani sono molto ignoranti e, quel che è peggio, non fanno nessuna ricerca prima di scrivere.
Allora vediamo qualcosa che può spiegare questo strano fenomeno. Prima di tutto, si dimentica che l’italiano è la lingua franca di uno dei principali soggetti geopolitici mondiali: la Chiesa Cattolica. La lingua ufficiale della Chiesa, come si sa, è il latino, ma quella in uso fra i prelati (e spesso anche i semplici preti) di nazioni diverse è soprattutto l’Italiano che è parlato correntemente in Vaticano ed usata prevalentemente dal Papa, vescovo di Roma, anche se non si tratta più di un italiano da quasi quaranta anni. Ed anche in ordini religiosi con i salesiani o i gesuiti, la lingua corrente è l’italiano.
Poi c’è da considerare che l’Italia è uno dei paesi che ha avuto una cospicua emigrazione nell’ultimo secolo: circa 40 milioni di persone sparse soprattutto in Argentina, Usa, Canada, Australia, Germania, Francia e Belgio e non pochi figli e nipoti si sono mantenuti bilingui. Fra l’altro (la cosa non ci inorgoglisce ma deve essere registrata su un piano avalutativo) l’Italiano è spesso usato fra gli uomini di Cosa Nostra o fra gli ‘ndranghetisti sparsi per il mondo ea altre organizzazioni criminali come i colombiani. E anche questo è un fenomeno sociale.
C’è poi l’importanza dell’Italiano sul piano culturale ed anche qui si sono dimenticate troppe cose. In primo luogo si dimentica che l’italiano è la lingua principale del melodramma e nel mondo ci sono tanti melomani che apprezzano molto la nostra musica lirica, basti pensare al successo mondiale avuto da Pavarotti dagli anni ottanta in poi.
Poi la letteratura italiana è sicuramente una delle primissime a livello mondiale; non mi interessa stabilire se sia la prima in assoluto (anche se non mi stupirebbe affatto constatarlo), mi basta sottolineare come essa abbia uno sviluppo continuo nel tempo da XIII secolo in poi, con capolavori di livello mondiale, in tutti i secoli. Quello che non mi pare si possa dire allo stesso livello delle letterature di Inghilterra, Francia, Germania, Spagna e Russia che presentano maggiore discontinuità.
Chi voglia avere una idea del “peso” della letteratura italiana, può consultare la monumentale collana di testi della Ricciardi, ma ripeto che non ha senso stare a stabilire se si tratti della prima in assoluto, basti considerare che certamente è fra le primissime. E non sorprende che ci siano autori italiani (da Petrarca a Gramsci o Leopardi) più amati e letti all’estero che in Italia. Ma qui c’è il ruolo della scuola, il cui principale scopo è far odiare agli studenti tutto quello che fa loro studiare.
Del peso dell’arte italiana, in particolare del Rinascimento, ma non solo, non è il caso di dire e questo spiega (altra cosa non sufficientemente considerata) che l’Italia sia una delle principali mete turistiche nel Mondo.
E, infine (anche la cultura “materiale”, ha il suo peso) tanto la gastronomia quanto la moda nel Mondo parlano spesso italiano.
Che morale possiamo ricavare da questa terribile sproporzione fra l’apprezzamento che la cultura e la lingua italiana riscuotono nel mondo e la pochezza dell’autostima degli italiani? Semplicemente che gli italiani del tempo presente sono impari rispetto al patrimonio culturale che li sovrasta. Peccato.
Aldo Giannuli
L’Italiano è la quarta lingua studiata nel mondo: gli unici a sorprendersi sono gli italiani.
Written by Aldo Giannuli. Posted in Le analisi, Osservatorio Globalizzazione
Un paio di settimane fa, la stampa italiana dava, con un certo stupore, la notizia che l’Italiano è la quarta lingua studiata nel mondo, dopo inglese, spagnolo e cinese, non riuscendo a spiegarsene il perchè.
Le prime tre sono abbastanza logiche: l’inglese è la lingua di un miliardo e mezzo di persone (mettendo nel conto anche gli indiani) ed è la principale (ma non l’unica) lingua franca del Mondo. Lo spagnolo è la lingua di mezzo miliardo di parlanti ed è in rapida espansione negli Usa; quanto al cinese, non solo è la prima lingua di un miliardo e mezzo di parlanti, ma è la lingua del principale paese emergente (forse è meglio dire ”Emerso”) e seconda potenza mondiale. Sin qui tutto spiegabile.
Invece, inspiegabile è che sia quarta l’Italiano, lingua di poco più di sessanta milioni di parlanti (forse settanta se ci mettiamo dentro eritrei, albanesi, somali che lo conoscono e un po’ di italiani all’estero), di un paese relativamente piccolo ed in decisa decadenza, ignorato dalle grandi potenze e ridicolizzato dai suoi piccoli politici passati e presenti.
Precede lingue come il francese, il tedesco, il russo, il portoghese, il giapponese, come si spiega? Il guaio è che i giornalisti italiani sono molto ignoranti e, quel che è peggio, non fanno nessuna ricerca prima di scrivere.
Allora vediamo qualcosa che può spiegare questo strano fenomeno. Prima di tutto, si dimentica che l’italiano è la lingua franca di uno dei principali soggetti geopolitici mondiali: la Chiesa Cattolica. La lingua ufficiale della Chiesa, come si sa, è il latino, ma quella in uso fra i prelati (e spesso anche i semplici preti) di nazioni diverse è soprattutto l’Italiano che è parlato correntemente in Vaticano ed usata prevalentemente dal Papa, vescovo di Roma, anche se non si tratta più di un italiano da quasi quaranta anni. Ed anche in ordini religiosi con i salesiani o i gesuiti, la lingua corrente è l’italiano.
Poi c’è da considerare che l’Italia è uno dei paesi che ha avuto una cospicua emigrazione nell’ultimo secolo: circa 40 milioni di persone sparse soprattutto in Argentina, Usa, Canada, Australia, Germania, Francia e Belgio e non pochi figli e nipoti si sono mantenuti bilingui. Fra l’altro (la cosa non ci inorgoglisce ma deve essere registrata su un piano avalutativo) l’Italiano è spesso usato fra gli uomini di Cosa Nostra o fra gli ‘ndranghetisti sparsi per il mondo ea altre organizzazioni criminali come i colombiani. E anche questo è un fenomeno sociale.
C’è poi l’importanza dell’Italiano sul piano culturale ed anche qui si sono dimenticate troppe cose. In primo luogo si dimentica che l’italiano è la lingua principale del melodramma e nel mondo ci sono tanti melomani che apprezzano molto la nostra musica lirica, basti pensare al successo mondiale avuto da Pavarotti dagli anni ottanta in poi.
Poi la letteratura italiana è sicuramente una delle primissime a livello mondiale; non mi interessa stabilire se sia la prima in assoluto (anche se non mi stupirebbe affatto constatarlo), mi basta sottolineare come essa abbia uno sviluppo continuo nel tempo da XIII secolo in poi, con capolavori di livello mondiale, in tutti i secoli. Quello che non mi pare si possa dire allo stesso livello delle letterature di Inghilterra, Francia, Germania, Spagna e Russia che presentano maggiore discontinuità.
Chi voglia avere una idea del “peso” della letteratura italiana, può consultare la monumentale collana di testi della Ricciardi, ma ripeto che non ha senso stare a stabilire se si tratti della prima in assoluto, basti considerare che certamente è fra le primissime. E non sorprende che ci siano autori italiani (da Petrarca a Gramsci o Leopardi) più amati e letti all’estero che in Italia. Ma qui c’è il ruolo della scuola, il cui principale scopo è far odiare agli studenti tutto quello che fa loro studiare.
Del peso dell’arte italiana, in particolare del Rinascimento, ma non solo, non è il caso di dire e questo spiega (altra cosa non sufficientemente considerata) che l’Italia sia una delle principali mete turistiche nel Mondo.
E, infine (anche la cultura “materiale”, ha il suo peso) tanto la gastronomia quanto la moda nel Mondo parlano spesso italiano.
Che morale possiamo ricavare da questa terribile sproporzione fra l’apprezzamento che la cultura e la lingua italiana riscuotono nel mondo e la pochezza dell’autostima degli italiani? Semplicemente che gli italiani del tempo presente sono impari rispetto al patrimonio culturale che li sovrasta. Peccato.
Aldo Giannuli
it/inglese-lingua-veicolare/Lingua veicolare: dove sta
scritto che debba essere per forza l’inglese?
Written by Aldo Giannuli. Posted in Le analisi, Osservatorio Globalizzazione
Nel Mondo della globalizzazione è inevitabile che si affermi una lingua “veicolare” che permetta di interagire: tanto per dirne una, cosa sarebbe internet senza l’inglese? Dunque, è pacifico che si debba andare ad una lingua di comunicazione, anche se questo non significa affatto che le altre debbano scomparire o diventare lingue di serie B. Il pluralismo culturale resta una fonte di arricchimento insostituibile ed irrinunciabile.
Ed allora, lingua comune sia, ma non è poi così scontato che debba essere l’inglese. Intanto alcuni dati non saranno inutili e li riprendiamo da una fonte insospettabile di anti anglismo, il libro di Huntington sul conflitto di civiltà, per il quale, nel 1992, i parlanti la lingua inglese erano il 7,6% della popolazione mondiale, mentre il cinese mandarino era parlato dal 15,2% e lo spagnolo dal 6,1%. Una stima decisamente avara che considera solo Usa, Uk, Canadà e Australia e che non tiene conto della tradizionale diffusione dell’inglese tanto nei paesi del nord Europa quanto in quelli ex coloniali come India e Sudafrica. Poi va detto che l’inglese è la lingua più studiata nel mondo. In totale, la stima più realistica è quella di un 20-22% della popolazione mondiale in grado di parlare e comprendere sufficientemente la lingua inglese.
Il numero potrà sembrare basso, dato che la sola India ha circa il 18% della popolazione mondiale, ma bisogna considerare che una larga fetta degli indiani (regioni rurali interne, sottoproletariato urbano ecc) non parlano affatto inglese ed un’altra parte rilevante parla un inglese molto approssimativo ed elementare, al di sotto del limite di sufficienza. E lo stesso si può dire di paesi come il Sudafrica, il Kenia o Mnmar.
Quanto agli studenti che apprendono l’inglese a scuola, va detto che in maggioranza poi ne conservano solo tracce del tutto insufficienti e, comunque, non sono in grado di utilizzare un dizionario monolingue.
Dunque, nel complesso, circa l’80% della popolazione mondiale non conosce affatto l’inglese o ne ha rudimenti assai scarsi. Anche scendendo al di sotto della soglia di sufficienza e considerando quanti hanno conoscenze utili ad avere una conversazione elementare, non andiamo molto oltre un terzo della popolazione mondiale e, quindi, la grande maggioranza della popolazione mondiale (non meno dei 2/3 ) ignora del tutto l’idioma di Shakespeare.
Per quanto il quinto considerato è sicuramente la parte più dinamica e “globalizzata” (che viaggia, studia, si connette in internet, segue la stampa e la Tv ecc.), siamo ancora abbastanza lontani da quello che potrebbe essere la lingua comune mondiale.
A questo bisogna aggiungere altre considerazioni. Parlare di inglese come di una lingua unica è un po’ fuorviante, in realtà inglese originario, inglese americano e inglese indiano hanno non irrilevanti differenze tanto per la pronuncia quanto per la costruzione lessicale e grammaticale. L’inglese originario è una lingua molto ricca di espressioni idiomatiche che non sempre presenti, ad esempio, nell’inglese-americano che, però, ne ha di proprie. Certo, un inglese ed uno statunitense si capiscono, ma i due idiomi vanno divaricando e l’inglese americano tende a prevalere. D’altra parte, la maggior parte di quanti conoscono l’inglese non come lingua materna, ma per averlo studiato, spesso ignorano quelle espressioni idiomatiche ed hanno un lessico piuttosto ridotto.
Dunque, per una ragione e o per l’altra, una larga fetta di quel 20-22% di cui dicevamo, parla una sorta di “basic english” che assolve a funzioni di livello non eccelso. Inoltre, inizia a profilarsi un fenomeno tipico, quello delle “lingue miste” (lo spanglish nel sud degli Usa e il chinglish in alcune zone costiere della Cina) che hanno un effetto contraddittorio, perché, da un lato, gettano un ponte fra la lingua franca e quella locale, favorendone la penetrazione, ma dall’altro creano sorta di enclaves linguistiche meno in grado di comunicare con il resto del Mondo, e dunque, finiscono per erodere la diffusione della lingua veicolare.
Ci sono, poi, considerazioni di ordine politico che meritano d’esser fatte: il successo dell’inglese è legato alla sua doppia funzione imperiale, prima con l’Inghilterra e dopo, ed ancor di più, con gli Usa. Il massimo di espansione dell’anglofonia è coinciso con il momento felice del mono-polarismo americano, ma siamo sicuri che il futuro conserva questo ruolo imperiale agli Usa? Il servilismo delle classi dirigenti europee (Francia a parte) dà per scontato che la partita sia chiusa e che l’inglese abbia vinto definitivamente, ma questa è la resa dell’Europa, non del resto del Mondo.
C’è un altro fenomeno che merita di essere notato: cinese a parte, la seconda lingua parlata al Mondo è lo spagnolo, con il 6,5% di parlanti nativi (un po’ di più se a Spagna e America latina ispanofona, aggiungiamo le Filippine), dunque, una percentuale non molto inferiore a quella stimata da Huntington per i parlanti originari di lingua inglese. Vero è che lo spagnolo non ha una India ed è studiato meno dell’inglese, per cui, fatte le stesso considerazioni di prima er l’inglese, il totale di quanti conoscono quella lingua come prima o come seconda, raggiunge a mala pena il 13%, però occorre considerare che il tasso di fertilità dei latinos è nettamente superiore a quello dei nord americani (e non parliamo degli inglesi, canadesi o australiani). In secondo luogo, la forte immigrazione dei sud americani negli Usa sta cambiando la geografia linguistica deli States: già da un ventennio, in molti stati del sud, gli avvisi al pubblico sono trilingui (inglese, spagnolo e spanglish. Infine occorre mettere in conto che, per le stesse ragioni politiche che hanno sin qui assistito l’inglese, in alcuni contesti, lo spagnolo incontra meno resistenze dell’inglese e penetra più facilmente.
In particolare, già da anni si studia la possibilità di un graduale passaggio del Brasile dal portoghese allo spagnolo, anche perché, in questo modo, esso potrebbe più efficacemente aspirare alla leadership continentale. E questo fatto da solo regalerebbe allo spagnolo un altro 4,5% di parlanti sul piano mondiale. Dunque, i giochi non sono per nulla fatti e, in un futuro non lontanissimo, potremmo anche assistere ad una gara fra inglese e spagnolo, mentre, nonostante la grande quantità di parlanti originari, ben maggiore di inglese e spagnolo messi insieme, appare meno probabile un testa a testa fra inglese e cinese mandarino (la maggioranza dei parlanti usa lingue fonetiche e non ideografiche).
Ma è proprio detto che si debba accettare come lingua veicolare mondiale una lingua nazionale? E’ un po’ come avere una moneta nazionale come moneta di riferimento internazionale: significa assegnare a qualcuno un vantaggio su tutti gli altri. In una visione non gerarchica dell’ordine mondiale (o il meno gerarchica possibile) questa primazia non si giustifica ed assegnare questo vantaggio può produrre più attriti di quanto non si immagini.
Dunque, ci sono alternative alla scelta di una lingua nazionale in funzione di lingua veicolare. Una prima alternativa è quella di una lingua artificiale come le “lingue ausiliarie internazionali” che sorsero nel XIX secolo (volapuk, esperanto ecc.) ma bisogna dire che si è strattato di esperimenti che non hanno avuto mai grande fortuna. Costruire un lessico con prestiti linguistici dalle lingue nazionali produce una lingua che ha seri problemi fonetici, ed ancora maggiori di natura grammaticale e sintattica, scarsa armonia ed ovviamente non ha alle spalle una letteratura ed una cultura. Se volete un esempio, basti leggere il padre nostro in esperanto:
« Patro nia, Kiu estas en la ĉielo,
sanktigata estu Via nomo.
Venu Via regno,
fariĝu Via volo,
kiel en la ĉielo tiel ankaŭ sur la tero.
Nian panon ĉiutagan donu al ni hodiaŭ
kaj pardonu al ni niajn ŝuldojn,
kiel ankaŭ ni pardonas al niaj ŝuldantoj.
Kaj ne konduku nin en tenton,
sed liberigu nin de la malbono.
(Ĉar Via estas la regno kaj la potenco
kaj la gloro eterne.)
Amen »
Non mi pare un grande risultato. Le lingue cd ausiliarie sono state prodotti di laboratorio sterili come certi ibridi animali. E si trattava di lingue artificiali costruite tutte su lingue europee, immaginiamo che problemi potrebbero esserci con una lingua artificiale che mescoli anche lingue idiografiche come il cinese, sillabiche come l’indi o il giapponese ecc. Credo non si metterebbe insieme neppure l’alfabeto. Quindi direi che possiamo lasciar perdere questa ipotesi.
Ne esiste un’altra: usare una lingua morta, debitamente aggiornata nel lessico e semplificata nella parte grammaticale e sintattica, riducendo al minimo eccezioni ed articolazioni. L’esperimento è già stato fatto e con successo in Israele, che ha richiamato in vita l’antico ebraico debitamente trattato. Anche l’arabo parlato (non quello scritto che è intangibile essendo lingua sacra), in fondo, è una lingua antica che si modifica e si aggiorna costantemente nel parlato.
Dunque, un’ operazione non impossibile che risolverebbe il problema del vantaggio ad una lingua nazionale (anche se, sicuramente, alcune, per la maggiore vicinanza morta a quella prescelta, avrebbero un residuo di vantaggio). Personalmente ritengo che la scelta più opportuna sarebbe il latino, in primo luogo per la larga diffusione scolastica di cui gode, perché ha una letteratura importante, perché quasi tutte le lingue europee (quantomeno dell’Europa centrale ed occidentale) hanno attinto ad essa, perché è legata ad un passato storico studiato in gran parte del mondo. Ma soprattutto per un’altra ragione specifica.
Recentemente ho spiegato a dei miei studenti questa mia idea sul latino ed hanno riso, ma non hanno più riso quando gli ho letto questo articolo de “La Repubblica” (22 dicembre 2014): “Perché il latino è la lingua ideale per comunicare su twitter”. Infatti il latino è una lingua sintetica e non analitica e, grazie ad artifici retorici come la callida iunctura (il “nesso furbo”), l’ordo verborum (l’ordinamento delle parole), costrutti sintattici come l’ablativo assoluto ed espedienti stilistici come il verbo sottinteso, ha caratteristiche di asciuttezza e concisione sin qui insuperate, che la rendono adattissima ad usi molto concentrati come twitter o gli sms. Perché non discuterne?
Certo c’è sempre un vizio un po’ eurocentrico, ma sarà sempre meglio che parlare la lingua dell’Impero vivente.
Aldo Giannuli
Written by Aldo Giannuli. Posted in Le analisi, Osservatorio Globalizzazione
Nel Mondo della globalizzazione è inevitabile che si affermi una lingua “veicolare” che permetta di interagire: tanto per dirne una, cosa sarebbe internet senza l’inglese? Dunque, è pacifico che si debba andare ad una lingua di comunicazione, anche se questo non significa affatto che le altre debbano scomparire o diventare lingue di serie B. Il pluralismo culturale resta una fonte di arricchimento insostituibile ed irrinunciabile.
Ed allora, lingua comune sia, ma non è poi così scontato che debba essere l’inglese. Intanto alcuni dati non saranno inutili e li riprendiamo da una fonte insospettabile di anti anglismo, il libro di Huntington sul conflitto di civiltà, per il quale, nel 1992, i parlanti la lingua inglese erano il 7,6% della popolazione mondiale, mentre il cinese mandarino era parlato dal 15,2% e lo spagnolo dal 6,1%. Una stima decisamente avara che considera solo Usa, Uk, Canadà e Australia e che non tiene conto della tradizionale diffusione dell’inglese tanto nei paesi del nord Europa quanto in quelli ex coloniali come India e Sudafrica. Poi va detto che l’inglese è la lingua più studiata nel mondo. In totale, la stima più realistica è quella di un 20-22% della popolazione mondiale in grado di parlare e comprendere sufficientemente la lingua inglese.
Il numero potrà sembrare basso, dato che la sola India ha circa il 18% della popolazione mondiale, ma bisogna considerare che una larga fetta degli indiani (regioni rurali interne, sottoproletariato urbano ecc) non parlano affatto inglese ed un’altra parte rilevante parla un inglese molto approssimativo ed elementare, al di sotto del limite di sufficienza. E lo stesso si può dire di paesi come il Sudafrica, il Kenia o Mnmar.
Quanto agli studenti che apprendono l’inglese a scuola, va detto che in maggioranza poi ne conservano solo tracce del tutto insufficienti e, comunque, non sono in grado di utilizzare un dizionario monolingue.
Dunque, nel complesso, circa l’80% della popolazione mondiale non conosce affatto l’inglese o ne ha rudimenti assai scarsi. Anche scendendo al di sotto della soglia di sufficienza e considerando quanti hanno conoscenze utili ad avere una conversazione elementare, non andiamo molto oltre un terzo della popolazione mondiale e, quindi, la grande maggioranza della popolazione mondiale (non meno dei 2/3 ) ignora del tutto l’idioma di Shakespeare.
Per quanto il quinto considerato è sicuramente la parte più dinamica e “globalizzata” (che viaggia, studia, si connette in internet, segue la stampa e la Tv ecc.), siamo ancora abbastanza lontani da quello che potrebbe essere la lingua comune mondiale.
A questo bisogna aggiungere altre considerazioni. Parlare di inglese come di una lingua unica è un po’ fuorviante, in realtà inglese originario, inglese americano e inglese indiano hanno non irrilevanti differenze tanto per la pronuncia quanto per la costruzione lessicale e grammaticale. L’inglese originario è una lingua molto ricca di espressioni idiomatiche che non sempre presenti, ad esempio, nell’inglese-americano che, però, ne ha di proprie. Certo, un inglese ed uno statunitense si capiscono, ma i due idiomi vanno divaricando e l’inglese americano tende a prevalere. D’altra parte, la maggior parte di quanti conoscono l’inglese non come lingua materna, ma per averlo studiato, spesso ignorano quelle espressioni idiomatiche ed hanno un lessico piuttosto ridotto.
Dunque, per una ragione e o per l’altra, una larga fetta di quel 20-22% di cui dicevamo, parla una sorta di “basic english” che assolve a funzioni di livello non eccelso. Inoltre, inizia a profilarsi un fenomeno tipico, quello delle “lingue miste” (lo spanglish nel sud degli Usa e il chinglish in alcune zone costiere della Cina) che hanno un effetto contraddittorio, perché, da un lato, gettano un ponte fra la lingua franca e quella locale, favorendone la penetrazione, ma dall’altro creano sorta di enclaves linguistiche meno in grado di comunicare con il resto del Mondo, e dunque, finiscono per erodere la diffusione della lingua veicolare.
Ci sono, poi, considerazioni di ordine politico che meritano d’esser fatte: il successo dell’inglese è legato alla sua doppia funzione imperiale, prima con l’Inghilterra e dopo, ed ancor di più, con gli Usa. Il massimo di espansione dell’anglofonia è coinciso con il momento felice del mono-polarismo americano, ma siamo sicuri che il futuro conserva questo ruolo imperiale agli Usa? Il servilismo delle classi dirigenti europee (Francia a parte) dà per scontato che la partita sia chiusa e che l’inglese abbia vinto definitivamente, ma questa è la resa dell’Europa, non del resto del Mondo.
C’è un altro fenomeno che merita di essere notato: cinese a parte, la seconda lingua parlata al Mondo è lo spagnolo, con il 6,5% di parlanti nativi (un po’ di più se a Spagna e America latina ispanofona, aggiungiamo le Filippine), dunque, una percentuale non molto inferiore a quella stimata da Huntington per i parlanti originari di lingua inglese. Vero è che lo spagnolo non ha una India ed è studiato meno dell’inglese, per cui, fatte le stesso considerazioni di prima er l’inglese, il totale di quanti conoscono quella lingua come prima o come seconda, raggiunge a mala pena il 13%, però occorre considerare che il tasso di fertilità dei latinos è nettamente superiore a quello dei nord americani (e non parliamo degli inglesi, canadesi o australiani). In secondo luogo, la forte immigrazione dei sud americani negli Usa sta cambiando la geografia linguistica deli States: già da un ventennio, in molti stati del sud, gli avvisi al pubblico sono trilingui (inglese, spagnolo e spanglish. Infine occorre mettere in conto che, per le stesse ragioni politiche che hanno sin qui assistito l’inglese, in alcuni contesti, lo spagnolo incontra meno resistenze dell’inglese e penetra più facilmente.
In particolare, già da anni si studia la possibilità di un graduale passaggio del Brasile dal portoghese allo spagnolo, anche perché, in questo modo, esso potrebbe più efficacemente aspirare alla leadership continentale. E questo fatto da solo regalerebbe allo spagnolo un altro 4,5% di parlanti sul piano mondiale. Dunque, i giochi non sono per nulla fatti e, in un futuro non lontanissimo, potremmo anche assistere ad una gara fra inglese e spagnolo, mentre, nonostante la grande quantità di parlanti originari, ben maggiore di inglese e spagnolo messi insieme, appare meno probabile un testa a testa fra inglese e cinese mandarino (la maggioranza dei parlanti usa lingue fonetiche e non ideografiche).
Ma è proprio detto che si debba accettare come lingua veicolare mondiale una lingua nazionale? E’ un po’ come avere una moneta nazionale come moneta di riferimento internazionale: significa assegnare a qualcuno un vantaggio su tutti gli altri. In una visione non gerarchica dell’ordine mondiale (o il meno gerarchica possibile) questa primazia non si giustifica ed assegnare questo vantaggio può produrre più attriti di quanto non si immagini.
Dunque, ci sono alternative alla scelta di una lingua nazionale in funzione di lingua veicolare. Una prima alternativa è quella di una lingua artificiale come le “lingue ausiliarie internazionali” che sorsero nel XIX secolo (volapuk, esperanto ecc.) ma bisogna dire che si è strattato di esperimenti che non hanno avuto mai grande fortuna. Costruire un lessico con prestiti linguistici dalle lingue nazionali produce una lingua che ha seri problemi fonetici, ed ancora maggiori di natura grammaticale e sintattica, scarsa armonia ed ovviamente non ha alle spalle una letteratura ed una cultura. Se volete un esempio, basti leggere il padre nostro in esperanto:
« Patro nia, Kiu estas en la ĉielo,
sanktigata estu Via nomo.
Venu Via regno,
fariĝu Via volo,
kiel en la ĉielo tiel ankaŭ sur la tero.
Nian panon ĉiutagan donu al ni hodiaŭ
kaj pardonu al ni niajn ŝuldojn,
kiel ankaŭ ni pardonas al niaj ŝuldantoj.
Kaj ne konduku nin en tenton,
sed liberigu nin de la malbono.
(Ĉar Via estas la regno kaj la potenco
kaj la gloro eterne.)
Amen »
Non mi pare un grande risultato. Le lingue cd ausiliarie sono state prodotti di laboratorio sterili come certi ibridi animali. E si trattava di lingue artificiali costruite tutte su lingue europee, immaginiamo che problemi potrebbero esserci con una lingua artificiale che mescoli anche lingue idiografiche come il cinese, sillabiche come l’indi o il giapponese ecc. Credo non si metterebbe insieme neppure l’alfabeto. Quindi direi che possiamo lasciar perdere questa ipotesi.
Ne esiste un’altra: usare una lingua morta, debitamente aggiornata nel lessico e semplificata nella parte grammaticale e sintattica, riducendo al minimo eccezioni ed articolazioni. L’esperimento è già stato fatto e con successo in Israele, che ha richiamato in vita l’antico ebraico debitamente trattato. Anche l’arabo parlato (non quello scritto che è intangibile essendo lingua sacra), in fondo, è una lingua antica che si modifica e si aggiorna costantemente nel parlato.
Dunque, un’ operazione non impossibile che risolverebbe il problema del vantaggio ad una lingua nazionale (anche se, sicuramente, alcune, per la maggiore vicinanza morta a quella prescelta, avrebbero un residuo di vantaggio). Personalmente ritengo che la scelta più opportuna sarebbe il latino, in primo luogo per la larga diffusione scolastica di cui gode, perché ha una letteratura importante, perché quasi tutte le lingue europee (quantomeno dell’Europa centrale ed occidentale) hanno attinto ad essa, perché è legata ad un passato storico studiato in gran parte del mondo. Ma soprattutto per un’altra ragione specifica.
Recentemente ho spiegato a dei miei studenti questa mia idea sul latino ed hanno riso, ma non hanno più riso quando gli ho letto questo articolo de “La Repubblica” (22 dicembre 2014): “Perché il latino è la lingua ideale per comunicare su twitter”. Infatti il latino è una lingua sintetica e non analitica e, grazie ad artifici retorici come la callida iunctura (il “nesso furbo”), l’ordo verborum (l’ordinamento delle parole), costrutti sintattici come l’ablativo assoluto ed espedienti stilistici come il verbo sottinteso, ha caratteristiche di asciuttezza e concisione sin qui insuperate, che la rendono adattissima ad usi molto concentrati come twitter o gli sms. Perché non discuterne?
Certo c’è sempre un vizio un po’ eurocentrico, ma sarà sempre meglio che parlare la lingua dell’Impero vivente.
Aldo Giannuli